“Un cane vale più di un cristiano”: così si esprimeva il leggendario Antonio De Curtis, in arte Totò. Il principe della risata nutriva infatti un amore viscerale nei confronti degli animali. In pochi sanno infatti che l’attore a un certo punto della sua carriera ha anche rilevato un ospizio per randagi insieme alla compagna Franca Fialdini, nei pressi di Ostia. Per i suoi “trovatelli”, Totò spese oltre 50milioni di lire per non fargli mai mancare le migliori cure di cui avevano bisogno.
Il rifugio ha accolto oltre 170 cani, tutti vittime di maltrattamenti o che stavano per essere abbattuti nel canile comunale. Totò e Fialdini avevano dato loro un’altra casa, una nuova possibilità. E molti di loro riuscirono effettivamente ad avere una vita felice. Grazie alle loro conoscenze, infatti, i due sono riusciti a trovare una famiglia a tantissimi ospiti del rifugio. Qualcuno è andato a vivere anche con persone famosissime del cinema italiano, come per esempio Anna Magnani.
Totò ribadì il suo amore nei confronti dei cani in diverse interviste, come per esempio quella pubblicata sull’Europeo nel 1963: “Se lei lo picchia, lui le è affezionato lo stesso, non gli dà da mangiare e lui le vuole bene lo stesso, lo abbandona e lui le è fedele lo stesso. Il cane è nu signore, tutto il contrario dell’uomo”.
Mentre realizzava alcuni dei suoi film più famosi, per esempio “I soliti ignoti”, “Totòtruffa ’62”, il Principe della Risata continuava a lavorare senza sosta. Si ripeteva continuamente che questo lo avrebbe aiutato a mantenere tutto ciò a cui teneva. Oltre ai 170 cani del suo rifugio, Totò si prendeva cura di altri 50 cani. E come se non bastasse, contribuiva al mantenimento di 25 persone bisognose.
Anche quando la malattia agli occhi se lo stava portando via, Totò continuava a far visita ai suoi cani. Era particolarmente affezionato a uno di loro, un cane lupo di nome Dick, che è rimasto al suo fianco per oltre dieci anni. Tanto che a un certo punto gli diede il titolo di “barone”. Nel suo “cerchio ristretto” c’era anche un barboncino di nome Peppe, nominato visconte di Lavandù, e un pappagallo di nome Gennaro che ottenne il titolo di cavaliere: “Sì, sono stato io a dargli il titolo. Del resto Caligola non fece senatore il suo cavallo?” spiegò nella stessa intervista.