Potrebbe sembrare una contraddizione, ma chi apprezza la solitudine sa riconoscere meglio i bisogni, le paure e le incertezze altrui.
La solitudine, se scelta liberamente, ben gestita e soprattutto apprezzata, migliora la salute e il benessere psico-fisico.
Spesso a questa dimensione viene attribuita una connotazione negativa; la solitudine è, in apparenza, un atteggiamento contrario agli ideali di socialità e di interazione tipici dell’essere umano. Tuttavia, c’è un interessante aspetto da considerare.
Chi sa stare solo con se stesso, chi si sente bene in compagnia del proprio mondo interiore, avvolto da un flusso rilassato di pensieri ed emozioni, riesce ad affrontare meglio le situazioni stressanti e ansiaose.
Si tratta di una personalità che la scienza ha cercato di analizzare, cercando di capire cosa risiede alla base di questo comportamento; ad esempio, occorre valutare se la solitudine venga utilizzata come via di fuga o addirittura sia l’atteggiamento nevrotico di chi rifugge il contatto con gli altri.
La solitudine sana, catartica e positiva è quella che serve a “disconnettersi temporaneamente”. Non è una fuga, non evita i rapporti con gli altri esseri umani, non nega la costruzione di legami significativi.
Rifugiarsi nel momentaneo guscio della solitudine è sano e positivo: è sintomo di benessere.
Scoprite con noi cosa dice la scienza in proposito.
Anneli Rufus, nel suo libro “Party of One: The Loners’ manifesto” (potremmo tradurlo con “Tavolo per uno: il manifesto dei solitari) sostiene che quasi il 25% della popolazione possiede questo tratto: essere solitari o apprezzare in modo intenso la solitudine.
La società etichetta da sempre questa cospicua fetta di popolazione con gli aggettivi più coloriti e, di solito, a valenza negativa: asociali, misantropi, ombrosi, perdenti, snob e perfino egoisti.
È comune guardare con sospetto chi, ad esempio, sceglie di trascorrere il fine settimana in solitudine, staccando da tutto e tutti; oppure commiseriamo l’amico che non ha un partner e che non esita a ripetere “sto bene così”.
Può essere felice chi non divide la propria vita con un’altra persona? Che beneficio si trae quando la mente non opera uno scambio di idee con altre menti, si preferisce il silenzio al dialogo, non si esprimono emozioni, non si divide con nessuno il letto, il divano, la cena, una passeggiata?
Questi sono i dubbi più comuni di chi, sul polo opposto, intende la vita come estroversione, costante ricerca di stimoli sociali, di compagnia, di sostegno da parte degli altri.
Vediamo adesso cosa dice la scienza sulle persone solitarie.
Il Dott. Birk Hagemeye, Università di Jena, in Turingia (Germania) ha ideato con i suoi colleghi una scala per misurare il nostro grado di socialità, di collegamento con gli altri e di desiderio di solitudine.
Come abbiamo accennato all’inizio, le persone solitarie possono corrispondere a diversi profili psicologici.
La cosiddetta scala “ABC dei desideri sociali” permette di approfondire quest’ultimo profilo e vuole dimostrare quanto segue:
Potremmo semplicemente dire che ognuno di noi ha la propria personalità e che nessuna è migliore di un’altra.
Ovviamente finché la personalità ci mette in grado di costruire la nostra felicità nel rispetto altrui e nella giusta convivenza.